Ontologia dell’animalità come nascita del postumano
Nicola Zengiaro
Abstract:
The ontology of animality, starting from Derrida’s writings, determines the reconsideration of the human being and his ontological condition within an environment (Umwelt) in which the anthropocentric point of view has hitherto been predominant. The post-human represents the urgency for ethics willing to reflect on a world inhabited both by hybridizing life forms breaking the boundaries, and a common and immanent substratum yearning for its own limit: the animality partaken by all of us. The boundaries will be deconstructed starting from the ontology, through the epistemology, in order to define post-human ethics.
Introduzione
Quando Jacques Derrida ricevette il premio T. W. Adorno esplicò il pensiero sviluppato durante tutta la sua vita, in un esemplare compendio di un ideale libro sognato che avrebbe, o avrebbe dovuto, scrivere e che, nel suo stile unico, illustrava in sette capitoli con titoli provvisori[1].
Il settimo capitolo di questo libro avrebbe riguardato l’animalità. Il tema dell’ontologia dell’animalità apre i confini a una serie di conseguenze etiche che oggi fanno parte del nostro più alto pensare filosofico e che costituiscono il concetto di postumano.
Derrida scorge in questo discorso una via verso il futuro, all’interno della quale avviene la decostruzione dell’essere umano e dei suoi confini come dominatore, dell’assoggettamento avvenuto nei confronti degli altri esseri viventi. Contemporaneamente la decostruzione rende possibile[2] uno sviluppo che ha voluto mettere da parte la filosofia dell’animalità e che oggi fonda il postumano, per una filosofia in divenire che prenda coscienza della co-partecipazione di tutti gli esseri viventi a un unico mondo, a un unico modo, nel quale esistiamo.
Il presente articolo affronterà la tematica derridiana attraverso alcuni concetti postumi sviluppatisi all’interno del contesto italiano, con cui Maurizio Ferraris, Felice Cimatti, Roberto Marchesini e Leonardo Caffo sono riusciti a comprenderne l’ampia portata del suo pensiero.
Quanto gli animali e l’animalità sono stati la base per costruire il concetto che abbiamo di noi stessi? Senza la dialettica umano vs animale, si sarebbe mai formata la definizione dell’essere umano e dell’umanesimo stesso che noi oggi accogliamo in modo così intuitivo?
L’animalità, che mette in discussione l’ontologica autopoiesi dell’essere umano, ristabilisce i rapporti tra gli esseri viventi e i loro mondi.
Nell’animalità, ha vita la pura filosofia, la filosofia dell’alterità, quella stessa che si occupa dell’Altro, di tutti i possibili altri, e che si espande infinitamente al campo dell’esistenza della possibilità ultima e totalizzante.
La conclusione del discorso di Derrida a Francoforte suggerisce che le premesse dell’animalità sono da sviluppare per una rivoluzione pensante e attiva di cui abbiamo bisogno nella coabitazione con quegli altri viventi che chiamiamo “animali”: «la “filosofia che viene” è appunto il tentativo di pensare una via d’uscita dall’umanesimo»[3].
È da quell’ecologia critica che oggi, anche attraverso quest’articolo, ricominciamo a pensare i confini dell’animalità e i limiti del concetto di “umanità”, laddove quest’ultimo è in balia della sua stessa decostruzione a causa della devianza concettuale-ontologica dell’essere animali.
1 Je suis Derrida, nous ne sommes pas l’animot
La traccia che Derrida si permette di mostrare nel ricevere uno dei premi più importanti per la filosofia è quello della dignità dell’uomo attraverso la riappropriazione della sua animalità. Perché proprio l’animalità? Perché l’animalità, e gli animali, tutti loro, costretti a un univoco riferimento che li appiattisce e li annichilisce sotto il nome di Animale, privati della loro vita, dignità, esistenza, in realtà ci circondano e ci hanno sempre posseduto[4]. Nella negazione del loro mondo, infatti, l’uomo, il concetto di “umanità”, si è potuto costruire nella violenza. «Lo sforzo di Derrida è dimostrare che l’animale ha tanto dell’uomo, e che l’uomo, d’altra parte, ha tantissimo dell’animale. Questo è un tipico movimento decostruttivo: l’opposizione animale/uomo rientra in quella catena di opposizioni […] che la decostruzione rimette in discussione»[5].
Il soggetto pensante, in questo caso l’essere umano, pensa l’altro con le proprie categorie, e su di esse ci muore[6]. Non c’è malizia nel pensare con i propri schemi concettuali[7] e quindi dal proprio mondo-rappresentazione, ma il non pensare l’altro come un soggetto altro in quanto tale è una fallacia che è costata la vita di miliardi di animali innocenti, di donne e uomini morti, di schiavitù, discriminazione, e per questo è una colpa prima facie che deve prendere sulle proprie spalle le conseguenze etiche che ne derivano, tra cui il pudore e la vergogna che accompagnano la coscienza dis-umana.
1.1 Il nome e il tempo
La filosofia dell’animalità di Derrida ripercorre il tema della morte attraverso l’attribuzione del nome, che dà un presentimento del lutto[8] nell’atto stesso di rendere vivo l’Altro[9] tramite il nominare. L’avere un nome assicura al soggetto, riconosciuto come tale grazie al nome stesso, la sopravvivenza. Entrare nel linguaggio, essere trasportati all’interno, vuol-dire entrare nella morte. Per questa ragione prima o poi la rappresentazione simbolica presentata dall’“io” cesserà di esistere, perché si tratta di un “io” gettato nel tempo e quindi inevitabilmente destinato a morire[10]. Ciò che non è detto è che l’animalità non vive nel tempo, perché è totalmente assorbita dalla vita. È l’animale umano che è out of joint[11].
[…] La prima occorrenza del tema dell’animalità, all’inizio degli anni ottanta, si ha proprio in un testo, “Geschlecht. Différence sexuelle, différence ontologique”, dove Derrida commenta e biasima il passo Che cosa significa pensare? In cui Heidegger sostiene che l’animale non muore, ma decede. In effetti, se consideriamo che l’animale è ciò che è mortale in noi, sembra singolare asserire che l’animale non muore. […] [Affermando] una problematica certezza sull’uomo, che in cuor suo crede di non morire mai.[12]
1.2 La mancanza
Infatti, tutto quello che sappiamo dell’animale, è che esso è “mancante”: di autocoscienza, di linguaggio, di razionalità. In questo senso è evidente che l’animale è mancante delle categorie che l’essere umano accredita a se stesso, in un’autopoiesi che fonda a sua volta, in una tautologia, l’essenza stessa dell’uomo. Ma quest’autopoiesi non è solo atta alla ricerca di se stessi, bensì al dominio che una certa condizione può comportare rispetto alle altre. «La reificazione del non-umano, ovvero la sua formalizzazione, è funzionale a far emergere l’uomo come protagonista: per raggiungere tale obbiettivo occorre infatti trasformare tutto il resto in palcoscenico»[13]. Certamente l’uomo ha varie caratteristiche che contribuiscono a creare la sua più intima soggettività; tuttavia, ed è questa la tesi su cui si fonda la struttura dell’animalità contraria all’umanesimo[14], «la soggettività è uno stare nel mondo, e affrontare problemi comuni alla condizione dell’essere animali – alimentarsi, apprendere, difendersi, ecc. – ma farlo in un modo specifico. […] L’idea che ogni specie e ogni individuo declina in modo singolare questo stare nel mondo e affrontare i problemi della condizione animale. Ecco allora che l’essere animale è qualcosa che “mi riguarda” e che “posso capire”»[15]. Qui si fonda propriamente la relazione primaria dell’animale umano con quello non umano, prima della politica, dell’etica, c’è un’ontologia[16] che accomuna tutti gli esseri viventi.
1.3 Il corpo e l’animot
In questo sguardo ontologico c’è una connessione primaria tra l’animalità dell’uomo e l’animale: il corpo. La differenza è profonda. L’essere umano ha un corpo, mentre l’animale è un corpo. Questa è la tesi: «differenza che intercorre tra il concetto di essere-un-corpo, che definisce una condizione dell’animale, e il concetto di avere-un-corpo, che pone in salienza le caratteristiche specifiche e strumentali della propria corporeità»[17].
La discriminazione avviene attraverso un’ideologia basata sull’invidia[18] (che in seguito diviene rabbia) di identificare l’animale con la sua vita corporea ed invece identificare l’animale umano attraverso il linguaggio, ovvero un “io” che dice, «del corpo che vive, che è “il suo corpo”. […] E subito risalta, al contrario, la nostra radicale non aderenza al corpo che abbiamo»[19]. Come Derrida ha posto in evidenza in molti saggi, questa ipseità non giustifica nessuna valenza, nessun valore, nessuna qualificazione rispetto al resto dei viventi.
Il corpo dell’uomo è, invece, costituito dal linguaggio. L’“animot”, “animaux” e “mot”, definisce in maniera profonda e viscerale la significazione del termine “animale” – perché tutto quello che l’uomo conosce degli animali finisce, termina lì. Questa parola, la parola “animale”, è per essenza esclusivamente una parola, e all’interno della sua insignificanza cede all’universalità del nulla, dell’oblio di un univoco riferimento che l’uomo ha creato, costringendo all’eguaglianza esseri che in comune non hanno nessuna qualità se non la possibilità di esperire piacere e dolore[20]. Tutti questi esseri viventi da cui l’essere umano mantiene le distanze non solo hanno in comune l’esperienza, ma anche il corpo, la corporeità; «[...] è la carne “[...] la zona comune all’uomo e la bestia, la zona di indiscernibilità [...] l’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo. È questa la realtà del divenire”»[21].
1.4 Il problema come genesi del pensiero
L’animale umano, Homo sapiens, è l’unico animale che ha come principale preoccupazione quella di dirsi diverso dagli altri viventi; questa è una caratteristica unica della nostra specie. Il problema, è che nella molteplicità delle qualità che appartengono a tutti gli esseri viventi, la qualità dell’uomo si perde. Per questo motivo l’uomo è nudo davanti all’animale, perciò Derrida è nudo davanti alla sua gatta. Non una gatta qualsiasi, ma quella gatta lì, e una gatta dal sesso femminile, che la individua e la identifica in corrispondenza a qualsiasi altro gatto universale – l’animot “gatto”. È proprio da questa vergogna primordiale, da questo pudore originale che Derrida inizia a pensare[22].
La decostruzione derridiana è «la filosofia, che dell’altro fa il suo principale punto di vista, diviene elogio di ogni singolarità: distrugge l’abissale categoria generica dell’animale, e rende voce ad ognuno degli offesi [...]»[23]. È lungo questa traccia che il filosofo algerino ha voluto dirigersi nelle sue ultime analisi.
2 Ontologia dell’animalità
L’assunto di base dell’ontologia è che tutti gli enti si equivalgono dal punto di vista dell’essere: la pietra, il folle, l’uomo razionale, l’animale.[24]
Per affrontare la costruzione del postumano, partendo da un’ontologia che riconosca la diversità in quanto tale, c’è il necessario bisogno di uscire dal paradigma antropocentrico che ha avuto la sua massima espressione nel carattere filosofico che poneva l’essere umano al centro di tre ordini di cui ora ripercorriamo il cammino decostruttivo: l’ontologia, l’epistemologia e l’etica[25].
Lo schema concettuale generale dell’antropocentrismo è dunque riassumibile in tre tesi essenziali. La prima asserisce che l’essere umano è, dal punto di vista ontologico, l’unica unità di misura delle cose. La seconda sostiene che l’essere umano è, da una prospettiva epistemologica, il solo misuratore di tutte le cose. La terza afferma che l’essere umano è, sul piano etico, l’unica entità misurabile in una prospettiva morale.[26]
2.1 Bìos e zoé, pudore e vergogna
Il confronto con l’animalità, con l’animale, con lo sguardo e con il silenzio dell’esistenza che non concede spiegazioni, svela l’essere umano immergendolo nella nuda vita[27]. L’umano posto di fronte agli animali perde la caratteristica della qualità sociale, del ruolo, e in questa istanza si dis-vela dei suoi abiti, dei suoi giudizi, delle sue categorie, aprendolo all’esistenza e al sentirsi-nel-mondo come puro corpo che vive, davanti a un altro corpo che vive in egual modo. C’è una nuova scissione, dopo il dramma dell’“io”, dell’“io sono” e dell’“io penso”, nella contrapposizione tra zoé e bìos.
Zoé ha la stessa radice del verbo zào, “vivere”, da cui zòon “animale”. Ebbene la vita intesa e compresa come zoè non conosce la morte perché indica il rigenerarsi continuo delle forme viventi, ove il nascere e il morire altro non sono se non il trasformarsi della vita in se stessa. La traduzione corretta di zoé potrebbe essere quella di vita eterna. […] Cos’è bìos? Nulla di più che un singolarizzarsi di zoé, nella sua individuazione.[28]
Davanti all’animale, che rappresenta la zoé, l’uomo si spoglia dell’individuazione che gli è propria, per riappropriarsi di se stesso. Essendo sempre stato vestito delle sue categorie mentali che lo differenziano dal resto degli esseri viventi, l’uomo si svuota e nudo davanti alla non nudità dell’animale prova pudore e vergogna. È smascherato, svelato, visto per quello che è. L’autobiografia che ogni soggetto umano ha di se stesso, che è confessione di se stesso a se stesso, è persa nell’indifferenza delle vite, che costantemente vengono a ibridarsi nel divenire dell’essere. Soltanto l’animale è immobile nel suo essere ciò che è, mentre l’umano si deve guardare dentro[29] per scorgere nella sua coscienza uno spiraglio che gli indichi la via giusta di stare-al-mondo.
L’animalità è una questione che ci riguarda, non solo perché nella dialettica umano vs animale si è costruita la “macchina antropologica”, ma perché la nostra condizione ontologica è essenzialmente una dimensione animale.[30]
All’uomo che si vergogna del suo corpo nudo davanti all’animale, che con il suo pelo è sempre stato nudo e non può essere più vero e nudo di così, sorge una domanda: «L’animalità fa parte di ogni concetto di mondo e anche del mondo umano?»[31] Si, la risposta che l’animale dà è si. Nudo come l’essere umano non si dovrebbe più sentire, anticipa la ricostruzione di un rapporto originario tra se stesso e l’animalità a cui partecipa, che gli è stata tolta dai suoi stessi schemi concettuali antropocentrati. Nella disposizione all’alterità come ciò che ci è più vicino, più vicino dello stesso tentativo di definizione di noi stessi per noi stessi, abbiamo un risvolto ontologico che inibisce il bìos, per lasciare il vuoto, inteso come mancanza dei valori pregiudiziali, in cui possa rivivere la nuda vita. «La scelta antropocentrica di privilegiare bios, rispetto a zoe, è legata a presupposti gerarchici che non si adeguano all’approccio inclusivo del postumano»[32]. Tolta la rigida copertura dell’umanesimo[33], possiamo liberarci nel divenire animale. Il pudore rende necessario il ripensamento, se non addirittura l’inizio stesso del pensare. Nella vergogna si comprendono le categorie con le quali si è sempre stati svestiti, proprio perché l’unico veridico modo di stare al mondo è la nuda vita, la quale ci veste dell’esistenza più piena attraverso l’“ecceità”[34], garantita dall’animalità che trapassa i confini dell’individualità ed apre le condizioni per sperimentare nuove forme di vita, liberandosi dal peso dell’ “io” che tutto sottomette e domina.
[…] Il punto non è tornare a un’esistenza originaria che non è mai esistita, semmai trovare un modo per essere il corpo che si è, cioè quello dell’animale che parla, senza però smettere anche di essere un corpo animale. L’animalità del divenire-animale non è alle nostre spalle, ma davanti agli occhi.[35]
2.2. L’ontologia come epifania animale[36]
[…] Richiamarsi all’animale [significa] mostrare un suolo comune che è indifferente alle nostre cogitazioni e ai nostri saperi, l’ontologia come arcamondo che accoglie gli uomini e gli animali.[37]
Dobbiamo chiarire a livello filosofico che impegno comporta riscoprire un’ontologia al di là d’ogni punto di vista antropocentrico. Ciò significa che, seguendo le tracce di Derrida, possiamo attraverso e con l’esistenza degli animali illuminare «un’ontologia pura […] [che] rifiuta ogni gerarchia»[38]; una realtà esterna indipendente da ogni soggetto, proprio perché stabilita dalla molteplicità di viventi che hanno differenti visioni del mondo. I molteplici punti di vista rivelano come un’epifania l’inemendabilità[39] del reale.
In questo movimento verso la riscoperta del reale situiamo Maurizio Ferraris, il quale si è sporto al di là del pregiudizio con Estetica razionale, dove afferma: «a superare il pregiudizio mi hanno aiutato gli animali. I quali – mi dicevo – si comportano benissimo nel mondo, spesso anche meglio degli uomini, ma difficilmente hanno schemi concettuali. […] Sulla base della sensibilità, cioè dell’estetica, si forma “l’ombra di un ragionamento”. Ecco che cosa ha in mente un animale»[40]. Ciò significa che il mondo ha delle articolazioni sensibili[41] che vengono afferrate dalla vita umana come da quella animale, le quali sono indagate all’interno delle teorie filosofiche postumaniste. La necessità di un’ontologia dell’animalità come nascita del postumano è quella per cui «c’è un mondo intero che non dipende da quello che sappiamo, e non è affatto un mondo laterale o occasionale: è il mondo in cui viviamo e che condividiamo con altri esseri viventi i quali non condividono i nostri schemi concettuali. La chiave di accesso a questo mondo […] è la percezione, il mondo del vedere, del sentire, del gustare, del toccare, dell’annusare […]»[42].
Si è decostruita, dunque, tutta una logica delle opposizioni dialettiche tra l’uomo e l’animale, laddove sono destituiti i confini binari tra quella parte di vita che corrispondeva alla bìos e la parte della vita animale, la zoé. In questo senso, l’egalitarismo “zoe-centrato”[43] è la chiave di volta del risvolto postantropocentrico nel quale può sorgere il postumano con tutta la sua infinita relazionalità ed apertura verso il vivente, sia in ambito filosofico che politico.
Ci siamo sempre distaccati da quell’incosciente parte dell’animalità per definire chi è “umano” e chi no, chi è una bestia e chi invece un dio[44] – argomento che sta alle fondamenta di tutto il percorso del secondo Derrida (quello a partire dagli anni ‘80[45]).
Come dimostrato da Leonardo Caffo nell’articolo Il postumano e la ciabatta: ermeneutica e antropocentrismo, «tutta la produzione di Ferraris, come del resto quella del suo riferimento filosofico principale (che qui individuo in Jacques Derrida), [è] descrivibile alla luce dell’animalità come entità teorica privilegiata per dimostrare l’esistenza di un mondo esterno al soggetto umano […]»[46].
3. Epistemologia postantropocentrica
3.1. Nietzsche e l’antropocentrismo: il prospettivismo
Nietzsche, il filosofo dell’animalità[47], aveva già compreso chiaramente la condizione contingente dell’epistemologia antropocentrata. Così, con estrema bellezza, ci spiega cosa significa comprendere che il proprio punto di vista non è, in assoluto, misura di tutte le cose:
Già gli costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano, e che la questione di determinare quale delle due percezioni del mondo sia la più giusta è del tutto priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste.[48]
Il criterio, che è denominato dall’uomo stesso “antropocentrismo”, è solamente una visione in mezzo alla moltitudine di punti di vista che rendono plurivalente la conoscenza del mondo. L’operazione stessa di porsi come centro conoscitivo dell’universo è arbitraria e viziata. A questo proposito, le filosofie decostruzioniste hanno fatto emergere la questione dell’interpretazione che l’uomo ha di se stesso e del proprio ruolo all’interno dell’esistenza. È chiaro come Nietzsche, punto di riferimento per la filosofia dell’animalità, renda conto della legittimità di un’epistemologia postantropocentrica. La lezione che ha voluto impartire all’umanità intera, spogliandola di se stessa, definendo l’uomo come un ponte – punto di partenza del postumano –, è quella per cui essa si è eretta su ciò che egli ha chiamato nell’aforisma 115 de La gaia scienza “I quattro errori”:
L’uomo è stato educato dai suoi errori: in primo luogo si vide sempre solo incompiutamente, in secondo luogo si attribuì qualità immaginarie, in terzo luogo si sentì in una falsa condizione gerarchica in rapporto all’animale e alla natura, in quarto luogo escogitò sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate, di modo che ora questo, ora quello degli umani istinti e stati, venne a prendere il primo posto e in conseguenza di tale apprezzamento fu nobilitato. Se si esclude dal computo l’effetto di questi quattro errori, si escluderà anche l’umanesimo, l’umanità e la “dignità dell’uomo”.[49]
Ora, non voglio sostenere che Nietzsche sia la genesi del postumano[50], bensì che la sua denuncia all’epistemologia antropocentrica è stata il chiaro spunto per la critica successiva all’umanesimo così come alle ideologie che vedevano un certo tipo di uomo come prototipo di inclusione-esclusione[51]. In questo senso, il superuomo nietzschiano è il contraltare della visione postumanista. La condizione dell’animalità, infatti, può essere anche interpretata nell’asse della volontà di potenza così come libera uscita dei propri istinti animali al di là d’ogni etica. Nel seguente capitolo andremo ad analizzare l’etica che verrà in una concezione in cui l’animalità, quella positiva[52] che spezza le condizioni di assoggettamento dell’umanesimo, sia la genesi stessa del postumano. «Abbiamo con Nietzsche e attraverso Nietzsche, due alternative possibili: la distruzione tipica del superuomo o la creazione che caratterizza il postumano»[53].
3.2 «Il postumano è il volto buono del superuomo»[54]
Schematizzerò ora la decostruzione di questi quattro errori che partono dall’umanesimo, e, attraverso Nietzsche, giungono alla genesi del postumano come condizione epistemologica dell’animalità filosofica.
1) Incompiuto: l’incompiutezza è chiaramente un’invenzione di un sistema – politico/religioso/economico – che chiude l’essere umano all’interno di limiti inibendo la sua potenza e creando non solo l’esigenza di appoggiarsi costantemente all’esterno, ma anche di non godere delle sue potenzialità. «Il postumano recupera da questa idea del superuomo la ferma volontà di non accontentarsi del presente»[55], ma di indagare altri mondi possibili in un sistema aperto. La concezione di Nietzsche dell’animalità caratterizza la prometeica visione dell’uomo come animale mancante, svuotandolo così di contenuto[56]. L’animale rappresenta la compiutezza assoluta e l’animalità «rappresenta il possesso di un mondo non autolimitante»[57]. In questa direzione l’animalità e la natura sono le entità della compiutezza umana: «l’idea che qualcosa in natura sia mancante è un non senso»[58]. Per passare dal superuomo al postumano dobbiamo gestire questa sensazione di incompletezza come un modus vivendi che si erge tra l’animalità e la tecnica.
2) Immaginarsi: se Nietzsche spinge per oltrepassare la falsa immaginazione è anche vero che l’ideale superomistico è esso stesso un’immaginazione di sé. La questione è come immaginarsi? «L’essere umano, corpo di carne, condivide con il resto dei viventi la condizione atroce di caducità e mortalità»[59]. La differenza è che il superuomo basta a se stesso, mentre il postumano non si basta mai. Quest’ultimo è in un «divenire continuo e perenne, ma non nell’ancoraggio cieco del nichilismo negativo, quanto proprio nella potenza dell’ibrido come ideale regolativo positivo»[60].
3) L’umano come altro dalla natura: è questo l’errore centrale, poiché fonda la concezione dell’umano su un’ontologia differente rispetto a quella del resto dei viventi. La tradizione filosofica precedente aveva una visione qualitativa-gerarchica dell’uomo secondo un’ontologia statica ed eterna, che poneva l’accento sui predicati che rendevano speciale l’uomo. Il superuomo in questo senso è un umano che si riscopre animale, il quale sviluppa il suo interesse in «un’ontologia dinamica che scaturisce dalla distruzione della barriera che divide umani e animali […]»[61]; in termini differenti, il postumano concentra le forze per rivelare che al di là delle gerarchie si apre un mondo in cui ogni animale è un universo unico, che rimanda ad una «rinnovata etica della convivenza tra gli eterospecifici»[62].
4) I falsi valori: la trasvalutazione dei valori nietzschiani. Com’è risaputo, essa è una critica alle imposizioni esterne e alla visione della vita in funzione di un al di là o nell’appoggio alla scienza, in un’ottica in cui ci si può affidare solo a sé. È qui che si allontana il postumano, laddove esso sostiene che «il sé non esiste: è una sfumatura di pluralità, concetti, forme di vita, passati, presenti e futuri. Il postumano è forma dell’essere che ha molte forme […]»[63].
L’umano fa parte della natura e la sua consapevolezza si deve dirigere in direzione di quella qualità ontologica degna di inviolabilità: il corpo. «Il corpo del superuomo divora l’alterità perché la teme, il corpo del postumano ne è divorato perché c’è un unico e solo corpo»[64]. La condizione postumana che nasce dall’animalità del corpo è necessitata da un’apertura definitiva di ogni confine, laddove il compito più complesso è diventare altro da noi, nel comprendere la parola “cambiamento” come cambiare forma s’introduce il cambiare vita, slegandoci dall’utilità e legandoci all’amicizia che sorge dalla nascita del postumano come alternativa alle ontologie divise.
3.3. Il linguaggio e il suo corpo. Dal limite all’incontro
L’animalità come condizione della nascita del postumano indica l’uscita dall’uomo per edificare un’umanità che sia solo una parte costituente dell’esistenza senza essere posta al centro. In questo senso la condizione dell’essere umano è di possedere il linguaggio. L’epistemologia postumanista reinterpreta il linguaggio umano come prospettiva definitoria e presa di posizione in una gerarchia che tutto sottomette, come abbiamo potuto osservare nel primo capitolo. La questione richiede una soluzione che vada al di là della teoresi come pratica intellettuale umana di risolvere problemi. Non esiste più un dualismo noi-loro, problema-soluzione, ma «il Postumanesimo, in quanto post-dualismo, è una prassi»[65], e la risposta a tale evento[66] è la ricerca stessa di questa azione come riabilitazione del rapporto dell’essere umano con il suo corpo. «La specificità corporale del prospettivismo permette una svolta ontologica che introduce l’agency (ossia la capacità di agire e reagire, caratteristica di ogni essere vivente) come elemento portante della prospettiva stessa […]»[67].
La psicanalisi e la filosofia del linguaggio dialogano, oggi, per una nuova riflessione su se stessi attraverso il corpo come luogo d’incontro. Questo incontro chiarisce che «il soggetto arriva fin dove arriva il suo linguaggio (e quindi i suoi pensieri), per questo è un “limite”. […] Lacan esplicita quello che in Wittgenstein rimaneva implicito: di questa soggettività come “limite”, come “punto inesteso”, come “taglio” rimane qualcosa, l’angoscia, che è il tono emotivo fondamentale dell’animale umano, cioè di quel vivente che propriamente non è, perché è soltanto un “limite”»[68]. Un limite da superare, cercando di andare oltre se stessi. L’animalità scioglie i confini per rendere conto a un’ontologia che rispetti la soggettività animale come reinterpretazione della dimensione umana[69].
La definizione che a mio parere coglie meglio l’essenza di questo sguardo filosofico rivolto all’umano, è quella di Felice Cimatti: «animalità significa immaginare una soggettività non scissa in corpo e mente, cioè una vita umana in grado di esaurirsi tutta, senza alcun residuo, nella vita che già si vive, peraltro l’unica che possiamo vivere»[70].
Si tratta qui di immaginare un’individualità umana non basata sull’“io” diviso dal corpo che, a causa della lingua che parla di sé, non riesce mai a vivere la vita stessa, ma un surrogato fatto di limiti in cui qui ci sono “io” e là ci sei tu. Ecco che appare la prima scissione, la prima discriminazione: l’“io” è diverso dal tu, dal resto degli “io”, quasi come fosse una speciale esistenza che si nomina come tutti gli altri, ed è per questo che bisogna tenersi stretti la propria soggettività, la propria definizione di se stessi. «Lo scopo antropologico del soggetto è eliminare le possibilità degli altri soggetti che, come lui, vogliono poter dire a loro volta “io”. Il conflitto, lo sfruttamento, l’esclusione, la segregazione sono impliciti nel gesto antropogenico fondamentale, quel dire “io” che rende possibile la nascita della soggettività umana»[71].
Dunque, per poter rinvenire il postumano nella concezione dell’animalità bisogna uscire dal linguaggio. Il suo “io penso” vive per l’uomo, l’“io sono” si presenta alla vita teoretica senza immergersi nella realtà del vivere, dell’esperienza[72].
L’immersione nell’animalità porta in superficie l’umanità che è il modo caratteristico dell’animale umano di vivere la vita, di realizzarla e di realizzarsi, di esserne soggetto attivo. La vita è comunicazione e la lingua, in questo senso, è l’unica cosa che non ne fa parte. Allo stesso tempo il corpo umano è umano se viene preso dalla struttura del linguaggio[73]. L’uomo è un corpo infettato dal linguaggio, che è un dispositivo inarrestabile (che va avanti indipendentemente da me), in cui l’“io” è un intermittente. Il problema è come costruire un corpo e non un corpo abitato. La domanda è: siccome non si esce dal linguaggio, che ne è della nostra vita? Il corpo-risposta è sempre altro da sé, dal corpo immaginario come illusione che esso possa esistere come un’entità unica. Il corpo in questo senso è escluso dal linguaggio ed è il terreno d’incontro con l’animalità. «Il corpo non si preoccupa di sapere, è “io” che non sa e cerca di sapere. Il corpo è, gli basta»[74].
L’ultimo capitolo cerca di disegnare un’etica postumanista che corrisponda a un’etica del movimento che parte dall’ontologia dell’animalità fino a sporgersi al di là della parola. «Alla fine delle parole, cioè della catena delle interpretazioni, si deve trovare qualcosa che non sia ancora una parola, ecco perché alla fine c’è la prassi, c’è l’agire, c’è un comportamento (nuovo, si spera)»[75].
4. Etica dell’animalità
Abbiamo compreso che l’antropocentrismo dev’essere superato attraverso l’ontologia che orizzontalizza i rapporti tra i viventi; adesso, dobbiamo comprendere come muoverci insieme in questo immenso piano ontologico, senza pestare le zampe a nessuno. È l’etica a metterci in movimento verso l’alterità, verso l’Altro, senza che ci sia scontro, ma solo incontro sia esso fatto di gioia o tristezza, composizione o decomposizione[76].
Un’etica dell’animalità propriamente non esiste: «The world of animality is morally flat. There are neither the Good nor the Value, human and animal, animate and inanimate. There are bodies (animals, plants, stones and so on) that interact each other. The key question is not what a body is, rather what such a body can do […]»[77]. Tuttavia c’è l’esigenza di chiarire che indipendentemente da una teoria etica, antropocentrica o postantropocentrica, dobbiamo confrontarci con l’emergenza di un certo comportamento. L’animalità è tutt’ora una prospettiva teoretica, dunque, per renderla una base per la prassi postumanista, necessariamente ci dobbiamo domandare: “da questa nuova rilevanza ontologica, che comportamento emerge?” Possiamo pure superare la questione della valutazione morale dell’argomento e dirigerci verso una descrizione (come ci comportiamo?) emergenziale della conseguenza che la potenza di un corpo ha sull’alterità. «However, there is a prospective where ethics still takes place in animality. It has to do with the power of each body to make connections with other bodies. For example, such a power implies that the body does not hide itself behind the distinctions Heidegger set up: the stone, the animal, the man. A body is nothing but its own capacity to make connections with other bodies […]»[78]. Ciò che non possiamo superare è il desiderio di conoscere la composizione tra corpi. Al di là di che “cosa posso sapere”, c’è il “che cosa devo fare” e il “che cosa mi è lecito sperare”[79]. Ebbene la seconda e terza questione kantiana si riassumono nella definizione derridiana di progresso come futuro direzionato e prima ancora nella spinoziana conoscenza delle cause. Possiamo sperare in un cambiamento che spezzi i confini, essendo consapevoli che le cause dei nostri comportamenti/pensieri sono date dalle alterità[80]. Emerge così la riflessione postumanista in vista di un’etica dell’animalità.
Come nasce il postumano, e cosa si intende per nascita? Ebbene, «un individuo giunge ad esistere solo quando, grazie all’intervento di una causa esterna, un insieme infinito di parti estese si integrano in uno specifico rapporto, il suo […]. Quando il suo rapporto compie delle composizioni. Questo significa nascere»[81]. La sua nascita è già un’identità fatta di relazioni non-umane che si ibrida con esse, ma che al contempo dialoga con i propri corpi-rapporti in movimento. «It is the power to move towards always new bodily connections, while at the same time to preserve the absolute singularity of such a body […]»[82].
Possiamo definire l’etica dell’animalità come etica dello stormo[83], nella sua emergenza dall’ontologia dell’animalità. Il movimento di quest’etica è ottenuto grazie al carattere precategoriale della condizione dell’animale umano. Nell’etica postumana, l’ontologia dell’animalità rende chiara una cosa: la diversità è un punto di forza e non di debolezza, la diversità va riconosciuta e, in un tentativo di comprenderla, avvicinata a sé con stupore o meraviglia[84].
Questa tesi è ampiamente discussa e sostenuta da Leonardo Caffo e da Roberto Marchesini, in diversi saggi che racchiudono un inno alla diversità, all’ibridazione e all’empatia come riconoscimento e comprensione. La manifestazione dell’essere umano è basata su una comprensione per immedesimazione e distanziamento, le quali fanno parte dello stesso processo di negazione del concetto di alterità ontologica non-umana[85]. È altresì vero che l’animalità ci riguarda ontologicamente, ma quest’aporia assume dei tratti fondamentali quando si cerca di capire che cosa fare, come vivere, come comportarsi con l’alterità e, in ultima analisi, con se stessi. Infatti, la questione che ora comprende gran parte dell’ontologia dell’animalità come nascita di un diverso ente, di un postumano, è condizionata dalle aree di sovrapposizione che si trova a vivere[86]. Lo straniero, l’altro di specie, ora diventa un mare in movimento in cui l’individuazione della nostra esistenza si può trovare in balia. Per dirla con Ferraris: “resistete!”[87]
Non si tratta di un tutto indistinto, ma di zone comuni in cui i predicati stessi sono condivisi, e simultaneamente differenti in sé. Ogni essere affronta attraverso la propria animalità problemi comuni alla condizione dell’essere animali in modo specifico, ed in modo differente allo stesso dettato esistenziale[88]. Non c’è alcuna perdita bensì un dialogo ontologico dove riconosciamo diversi processi di costruzione identitaria. Infine, possiamo affermare che l’ontologia dell’animalità è un’ontogenesi concepita come dialogo che crea, origina un movimento[89] che avvicina la propria vita in un incontro che è un’epifania, una rivelazione in quanto diversità sconosciuta e conosciuta allo stesso tempo, in cui l’identità è un flusso che emerge simultaneamente in due condizioni dove «esprimere e apprendere sono perciò le due facce della stessa medaglia, […] [e] le acquisizioni esperienziali rendono il soggetto più libero proprio perché arricchiscono l’agibilità del soggetto»[90].
5 Così parlò il postumano
L’ontologia dell’animalità è relazionale e dinamica, però è al di là della limitante teoresi dell’ontologia relazionale poiché riconosce il nostro debito verso gli animali non umani nel ripensamento dei confini stessi[91]. «Il limite diventa, quindi, immancabilmente provvisorio, si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude per aprire, è fatto per essere sormontato»[92]. In tal senso la direzione verso cui siamo diretti non è più decostruttiva, ma costruttiva. Il postumano è un ponte tra ciò che c’è e quello che potrebbe esserci. Ed è a partire da ciò che l’animalità ci svela che possiamo aprirci alla creazione di un altro tipo di umanità, che porti una speranza condivisa che sia la realtà che viviamo ogni giorno attraverso le nostre azioni. La rivelazione è che noi siamo sempre stati all’interno di quest’ontologia relazionale e «la meta non consiste nell’andare oltre il corpo e la vita, nella trascendenza […], al contrario, la meta coincide con il punto di partenza, la meta è rimanere dove già si stava»[93], però con uno sguardo sul mondo differente. Parafrasando Derrida, il quale sosteneva che l’animalità ci obbliga a ricominciare a essere umani, possiamo dire che l’animale e la sua diversità ci obbliga a ricominciare a essere animali[94].
Il postumano è appunto
l’idea di un’umanità non più chiusa in se stessa ma “aperta”. L’umano è in continuità ontologica con gli animali e la natura e non ha una posizione speciale nel mondo. Tende a ibridarsi e modificarsi con i suoi stessi prodotti tecnologici, modificando radicalmente i suoi predicati e parzialmente la sua essenza. Il postumano è un’opera aperta[95] e si contrappone, per principi e parametri, all’umano come opera chiusa dell’umanesimo.[96]
[1] J. Derrida, La lingua dello straniero, in “Le Monde Diplomatique”, Gennaio 2002.
[2] «La decostruzione, dunque, a dispetto di ogni immagine nichilistica o deresponsabilizzante, obbedisce all’unico imperativo categorico concepibile, quello di non chiudere la porta all’avvenire, di non impedire la venuta dell’evento, dell’altro, di altro» in C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini, Milano 2009, p. 61.
[3] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 18.
[4] «[…] Il momento in cui l’essere umano lasciandosi possedere dall’alterità accede a un piano assolutamente nuovo […]» in L. Caffo, R. Marchesini, Così parlo il postumano, Novalogos, Aprilia 2014, pp. 130-131.
[5] M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010, pp. 70-71.
[6] «“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale”, gli era sembrato per tutta la vita, giusto soltanto nei riguardi di Caio, e che lui non c’entrasse per nulla. Quello era l’uomo Caio, l’uomo in generale: la cosa era quindi giusta; però lui non era mica Caio […]» in L. Tolstoj, La morte di Ivan Il'ič, Milano, Garzanti 1975, p. 134.
[7] «Ora, la filosofia del Novecento ha insistito molto sulla circostanza che noi ci rapportiamo al mondo attraverso gli schemi concettuali; […] ma questo non significa che il mondo sia determinato dai nostri schemi concettuali» in M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 90.
[8] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, p. 58.
[9] «L’alterità animale rappresenta l’archetipo di ogni forma di alterità» in R. Marchesini, Alterità. L’identità come relazione, Mucchi, Modena 2016, p. 67.
[10] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., pp. 88-89.
[11] J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano 1994.
[12] M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 69.
[13] R. Marchesini, Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale, Mimesis, Milano-Udine 2016, p. 56.
[14] «[...] L’umanesimo e l’appello allo spirito si accompagnano con regolarità alla condanna dell’animale» in M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 70.
[15] R. Marchesini, Etologia filosofica, cit., p. 62.
[16] Me ne sono occupato con Maurizio Ferraris durante la tesi Ontologia dell’animalità: a partire da Jacques Derrida, Università degli Studi di Torino, in https://www.academia.edu/26834255/Ontologia_dell_animalità_a_partire_da_Jacques_Derrida, visitato il 22/12/2016, pp. 1-50.
[17] R. Marchesini, Etologia filosofica, cit., p. 69.
[18] F. Cimatti, Animalità e desiderio. Storie di gatte, e non solo, in L. Caffo, M. Ferraris (a cura di), n. d. s. Jackie D., “Animot: l’altra filosofia”, 1, I, Giugno 2014.
[19] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., pp. 91-92.
[20] Mi riferisco al dibattito etico della considerazione animale, si veda per approfondire il tema O. Horta, Una morale per tutti gli animali. Al di là dell’ecologia, Mimesis, Milano-Udine 2014.
[21] G. Deleuze, Francis Bacon, p. 52; cit. in E. Adorni, Bestia, in L. Caffo, F. Cimatti (a cura di), A come animale, Bompiani, Milano 2015, p. 31.
[22] N. Zengiaro, L’animale che ci guarda in https://gallinaeinfabula.com/2016/02/03/lanimale-che-ci-guarda/, visitato il 28/12/2016.
[23] L. Caffo, Flatus vocis. Breve invito all’agire animale, Novalogos, Aprilia 2012, p. 88.
[24] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2013, p. 96.
[25] R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, p. 92.
[26] M. Andreozzi, Note stonate. Appunti sull’antropocentrismo e sullo specismo dell’etica animalista, in Antispecismi, “Animal studies. Rivista italiana di antispecismo”, Novalogos, Aprilia, VII, 2014, p. 66.
[27] «[…] I fatti essenziali, le tracce che rimangono una volta che la realtà sociale è completamente decostruita, sono ciò che permette di vedere l’umano – ovvero l’umano in quanto animale, come nuda vita» in L. Caffo, Adesso l’animalità, Graphe, Perugia 2013, p. 22.
[28] S. Natoli, L’edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 4-6.
[29] «[…] In effetti l’animalità si comprende anzitutto in contrapposizione alla spiritualità. L’animale è l’essere umile, vicino alla terra (humilis vuol dire proprio questo), puramente vivente, diversamente dallo spirito, che vola alto» in M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 69.
[30] R. Marchesini, Etologia filosofica, cit., p. 15.
[31] J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 126.
[32] F. Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità, ETS, Pisa 2016, p. 91.
[33] «L’umanesimo è quel modo di considerare l’umano che lo colloca al di fuori del mondo animale. Il progetto umanistico, quello incentrato sul soggetto adulto autocosciente dotato di logos […]» in F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. 17.
[34] «Ossia “individuazione senza soggetto”» in G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2003.
[35] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., pp. 140-141.
[36] R. Marchesini, Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione, Mimesis, Milano-Udine 2014.
[37] M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 76.
[38] G. Deleuze, Cosa può un corpo?, cit., p. 96.
[39] «L’inemendabilità si manifesta essenzialmente come un fenomeno di resistenza e di contrasto» in M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 48.
[40] Id., Estetica razionale, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 577.
[41] J. Von Üexkull, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010.
[42] M. Ferraris, Estetica razionale, cit., p. 581.
[43] R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Derive Approdi, Roma 2014, p. 68.
[44] J. Derrida, La Bestia e il Sovrano (2001-2002). Seminario Vol. I, Jaca Book, Milano 2009.
[45] «[...] Con esattezza nel 1983, anno della morte di Paul de Man, il comparatista di Anversa che lo aveva accolto a Yale, e a cui Derrida dedicherà le Mémories pour Paul de Man che segnano l’inizio della sua riflessione sul lutto» in M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, cit., p. 70.
[46] L. Caffo, P. Kobau (a cura di), n. d. s. Postille a Ferraris, in “Rivista di estetica”, 60, LV, Marzo 2015, p. 36.
[47] «Nietzsche è un manifesto vivente all’animalità dell’umano» in L. Caffo, Del destino umano. Nietzsche e i quattro errori dell’umanità, Piano B, Prato 2016, p. 53.
[48] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano 2015, p. 25.
[49] Id., La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1965, p. 156.
[50] «Analizziamo dunque la nozione di prospettivismo, le cui radici vanno rintracciate nel pensiero di Friedrich Nietzsche» in F. Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità, cit., p. 102.
[51] R. Braidotti, Il postumano, cit.
[52] «L’animalità è l’orizzonte continuo del pensiero di Nietzsche che ne ha una visione positiva» in L. Caffo, Del destino umano, cit., p. 37.
[53] Ivi, p. 21.
[54] Ibid.; l’argomentazione che segue è tratta dalla struttura del libro stesso.
[55] Ivi, p. 33.
[56] G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Rizzoli, Milano 1970.
[57] L. Caffo, Del destino umano, cit., p. 37.
[58] Ivi, p. 38.
[59] Ivi, p. 46.
[60] Ivi, p. 48.
[61] Ivi, p. 56.
[62] Ibid.
[63] Ivi, p. 67.
[64] Ivi, p. 75.
[65] F. Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità, cit., p. 98.
[66] «La decostruzione si propone come un esercizio di ospitalità incondizionata all’evento: essa lavora a favore della venuta dell’altro, di altro, dell’avvenire, accelerandone, se possibile, l’arrivo imprevedibile» in C. Di Martino, Figure dell’evento, cit., p. 14.
[67] F. Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità, cit., p. 106.
[68] F. Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 46-47.
[69] R. Marchesini, Ruolo delle alterità nella definizione dei predicati umani, in P. Barcellona, F. Ciaramelli, R. Fai (a cura di), Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Dedalo, Bari 2007.
[70] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit., p. VII.
[71] Ivi, p. VI.
[72] «Una soggettività nasce, infatti, ogni volta che il vivente incontra il linguaggio, ogni volta in cui dice “io”. Ma proprio perché si è generato in esso e attraverso esso, è così arduo per il soggetto afferrare il proprio aver luogo» in G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016, p. 24.
[73] Ivi, p. 29.
[74] F. Cimatti, Il taglio, cit., pp. 90-91.
[75] Ivi, p. 102.
[76] G. Deleuze, Cosa può un corpo?, cit.
[77] F. Cimatti, Ten theses on Animality, in M. de Meo-Ehlert (a cura di), Confini animali dell’anima umana. Prospettive e problematiche, “Lo sguardo. Rivista di filosofia”, 18, II, 2015, p. 48.
[78] Ibid.
[79] «I desideri sono verbi, azioni in potenza, “strutture-che-connettono” in un certo modo l’individuo al mondo» in R. Marchesini, Alterità, cit., p. 100.
[80] «Conoscere è perciò congiungersi ossia ibridare il proprio apparato epistemico» in Ivi, p. 143.
[81] G. Deleuze, Cosa può un corpo?, cit., p. 182.
[82] F. Cimatti, Ten theses on Animality, in M. de Meo-Ehlert (a cura di), Confini animali dell’anima umana, “Lo sguardo”, cit., p. 49.
[83] In breve: un’etica la cui composizione sia data dall’autoorganizzazione delle singole parti, in cui la struttura è costituita da una connessione precategoriale che produce decisioni di gruppo determinate collettivamente e amplificata da una fluttuazione collettiva. L’idea giace nell’osservazione dei volatili che si “uniscono e si muovono come in una sinfonia eseguita alla perfezione”, si veda L. Caffo, La vita di ogni giorno. Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo, Einaudi, Torino 2016, pp. 11-31.
[84] «L’individuo postumanistico è viceversa consapevole che il desiderio soggettivo e l’apertura epifanica al dialogo con le alterità non lo minacciano ma lo rafforzano» in R. Marchesini, Alterità, cit., p. 40.
[85] Id., Etologia filosofica, cit., p. 52.
[86] «Il corpo […] [è] dialogante per costituzione con la realtà esterna, al punto tale che aleatoria è ogni definizione liminale. Dove comincia e dove finisce il corpo? […] Ogni definizione di confine è arbitraria. Il corpo si pone su una molteplicità di piani dialogici con il mondo esterno» in Id., Alterità, cit., p. 94.
[87] M. Ferraris, “Esistere è resistere”, in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Torino, Einaudi, 2012, pp. 139-165.
[88] R. Marchesini, Etologia filosofica, cit., p. 62-63.
[89] «“Progresso”, infatti, è un termine etico in quanto implica un movimento e non azione. Il movimento dell’interno che si conforma all’esterno. Il movimento della vita stessa», in L. Caffo, La vita di ogni giorno, cit., p. 25.
[90] R. Marchesini, Etologia filosofica, cit., p. 92.
[91] L’antispecismo è la prassi che oggi riabilita la teoria postumanista alle prese con le alterità laddove quest’etica renda possibile ciò che chiamiamo progresso, si veda L. Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale Monferrato 2013; O. Horta, What is Speciesism?, in “Journal of Agricultural and Environmental Ethics”, XXIII, Giugno 2010, pp. 243-266.
[92] R. Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna 2016, p. 96.
[93] F. Cimatti, Il taglio, cit., p. 123.
[94] L. Caffo, Animale: la questione in questione, in “Eco: l’educazione sostenibile”, n. 222-223, 2016, pp. 8-11.
[95] U. Eco, Opera Aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1962.
[96] L. Caffo, Del destino umano, cit., p. 18.